I’m dealing with demons

Demoni e metafore non sempre efficaci


Simone Biles ha sdoganato in tutto il mondo il modo di dire Americano “ho i demoni” utilizzato per descrivere un malessere psicologico. Ma parlare di demoni potrebbe essere una metafora controproducente per chi ha difficoltà emotive.


Durante le Olimpiadi di Tokio 2020 dell’estate 2021 l’atleta Statunitense Simone Biles si è ritirata da alcune delle competizioni per cui era in gara. Come riporta sky l’atleta ha dichiarato che “senza la testa il corpo non risponde e ti mette in pericolo”. In una situazione in cui la federazione americana sembra aver ammesso di non aver gestito al meglio i problemi di abusi commessi da un medico della federazione, è comprensibile che l’atleta abbia sentito il bisogno di mettere maggiore ordine in testa prima di riprendere a gareggiare con la competenza che ha sempre dimostrato.

Ho i demoni in testa

Ma invece che fermare l’attenzione su questo, preferisco prendere questo spazio per porre attenzione ad un modo molto inglese di parlare di salute mentale. Infatti nelle sue numerose comunicazioni social la Biles ha affermato di avere “i demoni in testa”. Questo modo di dire è un’espressione tipicamente inglese per definire un problema di salute mentale. Infatti accade spesso che alcune persone affermino di avere difficoltà d’ansia, di gestione della rabbia, dell’alcool o altro, ma per gli Americani questo spesso è tradotto con l’essere preda del demone dell’ansia, della rabbia o dell’alcool ecc…

In questo caso, Simone Biles ha poi precisato che il suo problema non è avere un demone, ma avere un twistie. Ha usato un termine più preciso e meno ambiguo, ma ha mantenuto una formula che è opportuno mettere meglio a fuoco. I twisties sono dei momenti in cui una persona può percepire un improvviso senso di vuoto che può compromettere completamente una prestazione sportiva. Durante un twistie avviene uno scollamento nella coordinazione tra mente e corpo. Il corpo risponde sempre alla mente, ma la persona protagonista di tale esperienza si percepisce tagliata fuori da tale dialogo. Sentire di perdere il controllo del proprio corpo può portare a movimenti errati e, a seconda del contesto, può esporre a pericoli. Avere un twistie durante una performance ginnica può essere molto pericoloso.

Tra twisties e capogiri

Tradotto in Italiano, “twistie” ha un significato simile a “torsione” o meglio “intorcinamento”, termine che anch’esso segue la tendenza anglofona di descrivere gli eventi nel modo più asciutto possibile. Notiamo lo stesso approccio anche con il termine recentemente divenuto popolare “cringe” con cui si descrive la sensazione fisica di tensione conseguente un’attivazione emotiva in presenza di un comportamento altrui ritenuto imbarazzante o patetico. Nel caso in cui si usi il termine cringe, poi esiste una certa difficoltà a distinguere tra le varie emozioni che la causano, non avendo più chiaro chi si senta cringe riferendosi ad un disagio personale nel sentirsi imbarazzato per empatia verso il prossimo in difficoltà e chi, invece, mostra libero disprezzo per il comportamento altrui giudicato patetico.

Con i twistie succede qualcosa di simile. Si descrive una reazione di scollamento tra mente e corpo, in cui esiste una percezione di torsione e movimento immaginaria di un corpo che non risponde alla coordinazione olimpionica della campionessa. Ma parlare di twistie comporta l’omettere completamente il focus su quale disagio emotivo provochi questa reazione. In Italiano esiste l’abitudine di parlare di “soffrire di vertigini” o “di capogiri” nel descrivere lo stesso fenomeno. Non spiega da cosa siano dovuti, ma almeno è leggermente più chiaro che i movimenti inconsulti del corpo, in ogni caso, partano sempre dalla testa. Parlare di demoni può creare confusione.

Pro e contro di utilizzare metafore

Questioni linguistiche a parte, credo possa essere utile provare a sottolineare alcuni pro e contro del ragionare in termini di avere demoni o avere twisties invece che ragionare delle emozioni che producono tali conseguenze.

PRO: Se ho un demone significa che non sono un demone.

Nella retorica dell’essere affetti da un demone, per molte persone questa formula può aiutare a non sentirsi colpevoli di quanto accade. Infatti essere affetti dal demone, per esempio, dell’alcool può permettere di separare la propria idea di sé da quanto avvenuto durante un momento di crisi. È il demone che ha svuotato la bottiglia, ha litigato con i familiari o ha dilapidato i risparmi, non sono stato io. Parlare di un problema mentale umanizzandolo, come fosse un demone, un mostro, un nemico, crea una narrazione utile a preparare un campo di battaglia.

Se ho un demone, battendo il demone posso tornare ad essere me stesso. Per molte persone questa prospettiva aiuta a trovare le risorse per rimboccarsi le maniche ed iniziare a lavorare sulla propria difficoltà. L’idea di fare la guerra al proprio problema e di liberarsi da un male esterno, aiuta a fare ricorso a risorse d’emergenza non sempre ugualmente disponibili. Unico neo di questo aspetto positivo è che il problema emotivo non è esterno. Non è davvero un demone che si è agganciato alla nostra salute. Il problema emotivo è la naturale conseguenza di un modo inefficace di vivere il rapporto con i propri pensieri. Non è un male che ha danneggiato una mente sana, è la naturale espressione del proprio modo di vivere la vita interiore.

CONTRO: I demoni sono individui pericolosi che potrebbero attaccare in modi imprevedibili.

Dare personalità ad un problema mentale rischia di suggerire che questa difficoltà abbia una vita propria. Che possa attaccarci quando abbassiamo la guardia o possa utilizzare strategie subdole per superare le nostre difese. Dare vita (immaginaria) ad un demone può suggerire la prospettiva secondo cui è naturale che un demone riesca sempre a intrufolarsi nel nostro quotidiano.

Se nella narrazione comune i mostri esistono da sempre ed esisteranno per sempre è comprensibile che non saremo noi, con i nostri limitati strumenti, ad eliminare una piaga che da sempre affligge l’umanità. Se quello che ci sta danneggiando è così complesso e lontano, sarà impossibile ottenere un risultato realmente apprezzabile, e sarà invece opportuno farsi bastare delle mezze soluzioni.

Inoltre esiste il rischio che il mio demone abbia preso di mira proprio me. Quindi che il demone non sia lo stesso che riguarda anche altre persone, ma sia invece l’espressione di una mia personale sofferenza e che nessuno potrà mai comprendere fino in fondo. Questa convinzione rischia di isolarmi e di rendermi refrattario a qualunque tentativo di aiuto esterno.

Guardare il problema in modo realistico e senza troppe metafore

In sintesi, pensare che un problema emotivo abbia una sua autonomia salva l’individuo permettendogli di sentirsi diverso dal proprio problema (ottimo), ma rischia anche di innescare una serie di riflessioni che rendono il problema peggiore di quanto non sia.

I problemi emotivi non hanno una loro volontà, non sono ostili, non sono versatili, non utilizzano strategie per adattarsi alle nostre soluzioni e non sono unici. Anche se in modo personale, spesso soffriamo tutti su questioni molto simili. Siamo tutti nella stessa barca.

Usare metafore o similitudini spesso aiuta a comprendere meglio alcune sfumature di elementi astratti e difficili da visualizzare. Contemporaneamente fare troppo affidamento a questa modalità rischia di rendere fuorviante il ragionamento, creando significati e conseguenze non realistici e inefficaci o persino controproducenti. È utile usare con agilità delle metafore, ma successivamente è determinante favorire una prospettiva che permetta di guardare il problema in modo realistico.

Etichettare correttamente il problema e comprenderne i meccanismi sottostanti permette di interagire con le sue cause cercando la strategia più efficace per smuoverne le fondamenta.

Come curare i twisties di Simone Biles?

Ogni persona vive un’esperienza unica che rende impossibile prevedere con sicurezza come sarebbe possibile curare la sofferenza emotiva altrui. Però ragionando in modo generale sul problema e supponendo che soffra proprio di un problema di capogiri che danneggiano la sua performance sportiva in modo improvviso ed imprevedibile, è possibile pensare ad un possibile percorso di cura.

Inizialmente è importante comprendere e riconoscere al meglio la struttura del problema. Quindi serve escludere le possibili cause mediche di un problema di equilibrio e, esclusa la causa medica, ragionare sulle componenti psicologiche in atto. Alcune possono essere rappresentative della persona in generale, altre intrinseche del modo in cui la persona vive la specifica situazione. In entrambi i casi, comprendere meglio l’esperienza personale offre accesso all’esperienza emotiva che causa il sintomo. Quindi diventa necessario acquisire gli strumenti minimi necessari per comprendere e maneggiare il proprio sintomo ed iniziare a sperimentare sia in generale, sia contestualmente alla situazione che elicita il problema. Infine sviluppando la propria competenza emotiva ed imparando ad utilizzare strumenti efficaci per dialogare con i propri pensieri, si ottiene il superamento del sintomo.

Non funziona come per i problemi fisici. Curare una gamba rotta è diverso da curare un sintomo emotivo. La gamba guarita continua a lavorare al massimo della propria guarigione. Diversamente il sintomo emotivo è intrinseco nel proprio approccio spontaneo. Ogni volta che si tornerà alle vecchie abitudini, il sintomo emotivo riemergerà regolarmente. Ma ogni volta che ci si ricorderà di prendersi cura di sé stessi in modo equilibrato e sano, il sintomo non si manifesterà. Per alcune persone questo risultato non rende pienamente soddisfatti. Spesso le persone vorrebbero poter fare quello che vogliono senza ripercussioni. Ma come non possiamo colpire un muro senza romperci una mano, non possiamo forzare le nostre emozioni senza soffrirne. Imparare a rispettare la propria vita interiore è un passaggio fondamentale per prendersi cura del proprio benessere emotivo.

Dr. Valerio Celletti

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