Su George Floyd e le conseguenze della crisi del politicamente corretto


Il dramma dell’omicidio di George Floyd ha mosso manifestazioni di protesta in gran parte degli Stati Uniti. L’evento però non è esclusivamente un caso di razzismo come succedeva in passato. È possibile che le convinzioni che hanno portato la polizia a ignorare il buon senso sottendessero un solco meno istituzionale ma altrettanto profondo. Sono persone che non hanno mai compreso il senso del politicamente corretto, lasciate sole ad ascoltare messaggi ritenuti buonisti che sembravano confermare la sensatezza della propria autoreferenzialità. Questo meccanismo può essere pericoloso per tutti a vari livelli.


La morte di George Floyd

Il 25 maggio 2020 in Minnesota è accaduto un fatto gravissimo. Una persona che stava comprando delle sigarette viene fermata dalla polizia per aver utilizzato una banconota da 20 dollari falsa. Durante l’arresto il poliziotto usa violenza per arrestarlo e, dopo che George Floyd è ammanettato e immobile a terra, lo trattiene premendolo verso il terreno per 8 interminabili minuti. Durante questo tempo George Floyd si lamenta di non riuscire a respirare e il poliziotto ignora le sue lamentele. I presenti filmano la scena con i telefoni e chiedono al poliziotto di lasciarlo respirare, ma il poliziotto risponde facendo intendere che i lamenti siano la sceneggiata di un drogato. Dopo 8 minuti George Floyd muore schiacciato dal poliziotto.

L’accaduto è profondamente grave. È morta una persona a seguito di una situazione che potrebbe coinvolgere chiunque, utilizzare una banconota falsa per comprare qualcosa. Inoltre l’evento probabilmente potrebbe risultare traumatico per gli spettatori impotenti dell’omicidio, persone presenti che hanno provato a intervenire in modo civile parlando ma che non hanno potuto impedire un omicidio per rispetto dell’autorità. Inoltre l’evento è grave perché mette in evidenza la mentalità del poliziotto in questione e dei suoi tre colleghi presenti. In questo momento il dibattito pubblico verte intorno al problema del razzismo e al dubbio che sia diffusa l’idea che alcune vite valgano meno di altre. Questo problema è concreto ma non si esaurisce in un problema di razzismo.

Il razzismo e il pregiudizio

Subire il razzismo è un trauma. Infatti il trauma è un evento che ferisce alcuni aspetti dell’integrità del sé. Esistono traumi piccoli e traumi cumulativi. Se accade un singolo evento di discriminazione, come essere guardati con aggressività senza aver fatto nulla di minaccioso, può essere considerato un trauma piccolo. Ma chi subisce il razzismo tendenzialmente viene discriminato innumerevoli volte nel corso della propria vita. Quando un evento doloroso si ripete nel tempo è detto trauma cumulativo.

Il tema del razzismo è intimamente collegato all’idea delle differenze etniche. George Floyd era di origini Afroamericane e questo molto probabilmente ha favorito il suo omicidio. Il poliziotto ha arrestato una persona di colore, sapeva avesse utilizzato una banconota da 20 dollari falsa ed ha dedotto di essere in presenza di un pericoloso truffatore da rieducare tramite la violenza. È possibile che se si fosse trattato di una persona caucasica il poliziotto avrebbe usato meno violenza. Ma è altrettanto possibile che il pregiudizio del poliziotto sarebbe stato altrettanto rapido nei confronti di altre persone. Usare una banconota falsa è un reato che potrebbe commettere chiunque. La discriminante tendenzialmente risiede nella consapevolezza della non autenticità della banconota. Per provare a dare una parvenza di spiegazione alla violenza eccessiva del poliziotto è possibile che lui abbia dato per scontato che George Floyd fosse pienamente consapevole di utilizzare una banconota falsa. Quindi il pregiudizio razzista del poliziotto potrebbe consistere nel pensare che “le persone Afroamericane sono tutte delinquenti che sanno ovviamente riconoscere le banconote false e che provano sempre a truffare il prossimo ad ogni occasione pensando che nessuno se ne accorga, gli insegno io quanto sia doloroso essere scoperti”.

Il pregiudizio del poliziotto si collega ad un tema più ampio del razzismo, cioè le microaggressioni.

Cos’è una microaggressione?

Nel 1970 per ragionare in modo ampio sulle discriminazioni lo psichiatra Chester M. Pierce ha inventato il termine microaggressione. Questa parola nasce per descrivere una modalità aggressiva di rivolgersi agli altri in modo aggressivo senza accorgersi di averlo fatto. Questo fenomeno accade spesso quando si interagisce con un gruppo o una minoranza facendo delle generalizzazioni e dei collegamenti tra l’individuo e il gruppo. Un caso diventa rappresentativo di un gruppo e ogni persona riconducibile a quel gruppo viene considerata come il caso a cui si fa riferimento.

Nel caso di George Floyd è possibile che il poliziotto sapesse di star perpetrando un’ingiustizia, ma esiste anche la possibilità che lui fosse convinto di comportarsi in maniera ragionevole nei confronti di una persona che riteneva essere un criminale e un bugiardo. Il fatto che lui fosse di origini Afroamericane agli occhi del poliziotto lo rendeva membro di una categoria in cui lui avrà avuto precedentemente modo di trovare altri criminali. Quindi agli occhi del poliziotto George Floyd era identico ad altre persone con cui probabilmente non aveva mai avuto a che fare.

Le persone tendono a non accorgersi di microaggredire

Il caso di George Floyd è evidente, ma il fatto che 4 poliziotti abbiano condiviso lo stesso punto di vista porta a pensare che in quel momento non si siano resi conto della gravità della loro azione. Chi aggredisce solitamente è consapevole del proprio gesto, mentre chi è responsabile di una microaggressione spesso non è consapevole. È possibile essere microaggrediti per qualunque cosa. Si può subire una microaggressione per il colore della pelle, per l’aspetto, per l’accento, per il genere, per l’orientamento sessuale, per il lavoro o per qualunque altra caratteristica categorizzabile. Ovunque esista una categoria esiste il rischio di una microaggressione quando si fa riferimento a qualcuno partendo da un presupposto sulla categoria di riferimento.

Per esempio rivolgersi a un professionista dando per scontato che non faccia una fattura è una microaggressione perché viene considerato evasore. Rivolgersi a una donna in un gruppo di uomini chiedendole se è in difficoltà è una microaggressione per lei (debole) e per loro (violenti). Portare la mano al portafogli quando si incontra una persona straniera è una microaggressione per il modo in cui viene considerato criminale. Dedicare più o meno tempo al colloquio di lavoro di una persona per motivi diversi dalle competenze professionali è una microaggressione.

Subire ripetute microaggressioni nel tempo può portare a un trauma cumulativo che può danneggiare la propria idea di sé e degli altri in modo doloroso. Chi perpetra le microaggressioni tendenzialmente non si accorge di praticarle e non ne subisce nessuna conseguenza. Chi si accorge di subire microaggressioni può diventarvi molto sensibile finendo per non riuscire più ad ignorarle. I gruppi che subiscono le microaggressioni più evidenti tendono a riconoscerle con maggiore chiarezza e, se non aiutate, finiscono per irrigidire la propria idea di sé e degli altri chiudendosi in ideologie autoreferenziali e ostili.

Dalle microaggressioni al politicamente corretto

Un aspetto importante delle microaggressioni riguarda la forma con cui sono espresse. Chi sostiene che “tutti gli asiatici hanno lo stesso aspetto” afferma qualcosa di microaggressivo. Questa affermazione può sottendere l’idea che un gruppo di persone sia privo di identità, autonomia, personalità o sentimenti. Per evitare di cadere in questo errore non serve astenersi dall’esprimere un’opinione, ma piuttosto è necessario correggerne gli errori logici che contiene. In questo caso per correggere la generalizzazione precedente è preferibile affermare di “avere difficoltà a distinguere i tratti somatici delle persone di origine Asiatica”. Questa frase è meno fraintendibile.

Una delle principali conseguenze della diffusione della consapevolezza delle microaggressioni è stata la nascita del “politicamente corretto”. Questa espressione nasce nei movimenti Americani che rivendicavano il riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche. Esprimersi in modo politicamente corretto significa usare un linguaggio il più possibile privo di microaggressioni. La correttezza è insita nell’intenzione di aggredire prima che nell’aggressione stessa. Però nella sua applicazione questo concetto ha finito per essere spesso frainteso.

Per esempio il termine “handicappato”, dopo essere stato usato per molti anni, è stato ritenuto microaggressivo perché riduce l’individuo all’essere solamente il portatore di una disabilità. Per questo si è ritenuto più corretto favorire la diffusione dell’etichetta “portatore di handicap”. Successivamente è emerso un termine nato con il proposito di essere ancora più corretto del politicamente corretto valorizzando il lato positivo ed in alcuni ambienti si è iniziato ad usare il termine “diversamente abile”. Questa rilettura del termine apre a diversi dubbi, tra cui il fatto che il termine sia formalmente corretto ma contenutisticamente errato.

In certi casi la correttezza politica è stata considerata sinonimo di falsità, vittimismo e censura. Questa confusione in alcuni casi ha portato a dubitare dell’onestà del politicamente corretto. Nasce l’idea che certe riflessioni non siano corrette, ma piuttosto “buoniste”.

Buonismo, cioè quando corretto diventa sinonimo di falso

Il buonismo è un’ostentazione di buoni sentimenti da parte di un politico. Il termine è tendenzialmente usato in senso dispregiativo per descrivere un discorso finto che desidera solo promuovere un sentimento desiderabile senza confrontarsi davvero con la complessità della realtà. Questa deriva è probabilmente conseguenza di un dibattito pubblico che promuove correttezza politica senza educare in modo chiaro all’importanza di capire in cosa consiste l’essere corretti e senza spiegare in cosa differisca dal voler sembrare buoni.

Aver evitato di dare il giusto risalto all’importanza e al valore della correttezza comporta confusione. Il buonismo spesso si manifesta con una censura moralista che vieta alcuni contenuti, per esempio sessuali, considerandoli peggiori di altri contenuti violenti più estremi. Gli effetti sociali della diffusione del buonismo sono evidenti. Alcune persone considerano sbagliate alcune leggi perché basate su presupposti irreali e, di conseguenza, si sentono giustificate a delinquere. Il poliziotto che ha assassinato George Floyd lavorava a contatto con la criminalità e probabilmente si sentiva giustificato nell’usare violenza perché “tanto chi mi impone delle regole è un buonista che non si sporca le mani con i problemi della società come faccio io”.

Questo pensiero è diverso dal razzismo del passato. Non è solo un pregiudizio verso una minoranza in una società razzista, ma è ostilità verso una categoria in una società che dice chiaramente che è sbagliato discriminare ma che ritengo essere perbenista, irreale e non adatta ad aiutare ad orientarmi nella vita reale.

L’omicidio di George Floyd è grave non solo perché è morto in un modo che poteva essere evitato facilmente, ma anche perché chi lo ha ucciso non si è accorto (e forse non si accorge ancora adesso) di quanto avesse torto. Esistono molti gruppi che dubitano del “pensiero ufficiale” considerandolo falso in modi più o meno ragionevole.

Microaggredire sé stessi

Socialmente il problema delle microaggressioni e della perdita di credibilità del politicamente corretto è grave. Da un punto di vista psicologico la stessa cosa avviene nei confronti di sé stessi. Il fatto che alcune persone prendano le distanze dal politicamente corretto tende a riversarsi su un limite nella capacità di dialogare con sé stessi. Chi si microaggredisce si giudica con ostilità in base al proprio passato e spesso non si accorge con chiarezza del modo in cui sta aggredendo ingiustamente la propria autostima.

Infatti chi dubita sistematicamente dei discorsi che reputa buonisti tende ad avere difficoltà a distinguere tra una modalità buonista e una politicamente corretta. Di conseguenza quando in psicoterapia si suggerisce di apprendere una modalità più gentile, morbida e comprensiva di dialogare con sé stessi, alcune persone tendono a capire che “mi sta suggerendo che per star meglio devo imparare a raccontarmi delle bugie buoniste che non descrivono la realtà”. Questo fraintendimento rende difficile per alcune persone imparare a gestire più efficacemente la propria emotività. Moderare i termini viene percepito come un mentire; valorizzare il positivo diventa un fingere che il negativo non esista e apprezzarsi finisce per significare un consolarsi durante un’esistenza fallimentare. Fraintendere il senso di essere politicamente corretti può portare a diverse modalità di sofferenza e, in ultima istanza, può favorire il rischio suicidario.

È difficile chiedere aiuto quando non ci si accorge di ferirsi

La comunicazione a cui le persone sono esposte tende ad essere confusionaria e può facilmente favorire delle generalizzazioni poco salutari. Capire e districarsi all’interno di un ambiente tanto confuso è una sfida impegnativa. Se ci si accorge di soffrire eccessivamente per uno stile aggressivo che si esercita verso sé stessi e si è convinti che quello sia il modo migliore, più realistico e produttivo di dialogare con sé stessi, è possibile che ci si stia microaggredendo contribuendo a provocarsi un trauma cumulativo.

Un problema delle microaggressioni è che non ci si accorge di microaggredire. Spesso non ci si accorge di farlo con gli altri e diventa ulteriormente difficile riconoscere si farlo verso sé stessi. Rispetto ai propri pensieri ognuno è unico testimone di quanto accade e l’unico a poter ascoltare il modo in cui si rivolge a sé stesso.

Nel caso in cui la sofferenza diventi poco tollerabile, piuttosto che insistere facendo ricorso solo alle proprie forze è opportuno chiedere aiuto, che può essere il primo passo per migliorare.

Dr. Valerio Celletti